lunedì 16 luglio 2012

IMPERFETTO FUTURO: IL FOGGIA SPIEGATO AI POSTERI, E A ME STESSO


Ho 25 anni, da poco compiuti. E questa è una delle poche cose sicure della mia vita, le altre si possono quasi contare: sono mia madre, mio padre, le mie sorelle, un battesimo, una comunione, una cresima, un diploma di maturità, una patente, una laurea triennale e una quasi laurea specialistica. E poi una città di nascita, una fede e due colori: il rosso e il nero.

Foggia. Quante volte l'ho chiamata. Per burocrazia, per circostanza, per difendere ottusamente la terra dei miei genitori. Sempre con la stessa verità, anche negli sguardi più bui. Ma senza quei colori, senza quel rosso e quel nero, niente sarebbe stato com'è stato. Si dice "vivere di pane e pallone": non so se sia vero, so però di aver barattato molti pranzi domenicali per una partita. Quando si giocava solo di domenica, e la partita non era mai solo una partita, era una manifestazione d'orgoglio. Una festa di vita e di battiti.
I dettagli sono sempre la cosa più importante. Prendete i tamburi: senza di loro non avrei mai capito che lo stadio aveva un cuore che batteva, proprio come una persona, come un padre o un nonno o uno zio. Avevo 5 anni, non capivo nulla dell'euforia di incamminarsi verso viale Ofanto alla stessa ora ogni due settimane, ma bastava scendere dal portone di casa per iniziare a sentire un rombo di voci prendere vigore, e il TAM secco del tamburo chiamarmi in causa. Si, era proprio me che chiamava, l'avrei capito qualche anno dopo.
T'accorgi che qualcosa dentro di te è diverso quando non è solo più una partita di pallone, ma un rito, con quei simboli che da soli non sono più nulla, ma vivono solo nel contesto di quel racconto. Prendete il rosso e il nero: scusate la ripetizione, ma per me da allora sono stati e saranno sempre due mezzi colori, che esistono solo in funzione della loro unione, accanto a una scritta.

Foggia. Certo, lo ammetto, c'è sempre stato un grosso rischio: finire con l'identificare tutto con le storie di quel pallone che rotolava sull'erba. Ma anche qui la realtà è meno arida di quanto la vogliate immaginare; l'attaccamento a quella casacca è solo la manifestazione gioiosa ed appariscente di un sentimento forte di vicinanza con la propria comunità.
Non posso dirlo per tutti (spero anzi che qualcuno possa confermarlo per me), ma aldilà del serie A, del bel calcio e delle grandi ribalte, c'è sempre stato uno zoccolo duro che ha vissuto e vive tuttora la propria maglia come uno dei monumenti della propria città, una meraviglia da celebrare, una preziosità da curare. Si è vero, poi c'erano le partite, le sconfitte, le contestazioni, i fischi, ma a fine agosto le facce interroganti e speranzose del tifo rossonero sono sempre state lì, pronte ad un nuovo anno di donazioni, economiche e psicofisiche. Per una squadra con undici stronzi in maglietta rossonera e calzoncini neri. No. Per una passione con i piedi sporchi di follia.

Foggia. Se mi sforzassi forse potrei rammentare tutti i gol, i risultati, i torti arbitrali, le rimonte e le occasioni perse a cui ho assistito cosciente. Ma gli almanacchi in fondo sono pieni di questo, e poi i ricordi sono come i figli: ognuno c'ha i suoi, e una persona sana non li scambierebbe mai con quelli di un altro. Così, anche se so quanto sarebbe stato bello vivere certe stagioni del tifo rossonero, non mi lamento più di tanto perché in fondo ce le ho anch'io delle immagini indelebili appese alle pareti di questa fede.

Foggia. Novantesimo minuto; tuttoilcalciominutoperminuto; domenica sprint e domenica sportiva; pressing; e poi il televideo; le trasmissioni sportive locali e l'attesa di una scritta, di una notizia lieta, di un gol da un campo sperduto; le notizie sul giornale; i giocatori incontrati per la strada; la diretta serale. Ma prima di tutto il Pino Zaccheria, i cori, lo spettacolo coreografico che iniziava dai manifesti della partita trovati per le vie della città, la fila ai botteghini, l'età sempre un po' più bassa finché eri tanto nano da potertelo permettere, la mano di papà o di mio zio, il foglio sul seggiolino sporco, il bar strapieno alla fine del primo tempo, guardare la curva dalla tribuna, e poi tutta la partita in piedi, le preoccupazioni dei tuoi, lo sguardo fiero di chi riusciva a scovare il campo oltre le bandiere e i fumogeni, la voce timida che si gonfia dell'eco dei tuoi vicini. Dei tuoi fratelli.
Si. Perché così si chiama, e si chiamerà sempre, chiunque dividerà con me l'esperienza di questi colori. Offesi e sporcati, ma vivi. Anche adesso che non esistiamo per alcun campionato, che abbiamo davanti un futuro di polvere e posti vacanti, che dovremo dare fondo a nuove riserve per spiegare come diamine è che "andiamo ancora appresso al Foggia".

E ci ritroveremo, un po' cresciuti, sfiancati dalla crisi, logorati da uno sport che stanno smontando pezzo per pezzo e preoccupati per gli occhi di una città sempre troppo pronta alla resa, a ricordare ai nostri familiari e concittadini che non è che noi "andiamo appresso al Foggia": noi il Foggia lo sosteniamo!
Perché possono fallire le società, e chiudere le aziende; ma finché ci saremo noi, la parola "fine" sarà sempre un abuso di retorica.
Forza vecchio cuore rossonero.


domenica 1 luglio 2012

Neuro '12: GRAN FINALE e UN LIEVE ACCENNO SU SPAGNA-ITALIA

(finale)

SPAGNA - ITALIA 4 - 0
ovvero
LA VIA PER IL PARADISO E' LASTRICATA DI THIAGO MOTTA

Se dovessi usare un'ora dalla mia vita in questa domenica notte, ormai lunedì di inizio luglio, di certo non la spenderei per raccontarvi come si è sviluppata la batosta inflitta dalle furie rosse agli azzurri; né tanto meno mi imbarcherei in una disamina delle cause della sconfitta, anche perché tanto è colpa di Prandelli che ha convocato 23 giocatori solo perché costretto, visto che ad alcuni non ha neanche mai fatto scrivere il nome dietro la maglia tanto era sicuro che non avrebbero mai messo piede in campo.


Mi piacerebbe raccontarvi di questo Europeo, di come è cambiato il calcio, di come sono cambiato io per il calcio e di come sta malattia riesce ancora a toccarmi quelle corde nel profondo che fin ora solo la torta millesfoglie, Corrado Guzzanti e il video di Pamela Anderson e Tommy Lee avevano stimolato.
Mi piacerebbe descrivervi cosa diventa questa virus mentre cambiano le persone attorno a te, mentre cambi i posti e le amicizie, mentre allestisci scenari, coltivi follie e apparecchi passioni; mi piacerebbe farvi capire chi è quello che aspetta Inghilterra-Ucraina anche se sa le tante probabilità che ha di andare incontro a un pugno di noia nell'occhio; mi piacerebbe disegnarvi un quadro più o meno preciso della distensione muscolare che ti penetra quando le squadre scendono in campo, e tutte le paure e i buchi neri, le porcherie e i "matunonceri", i drammi finti e quelli veri, le responsabilità e i padri severi si diluiscono in una sostanza che ti anestetizza l'organismo, dandogli la possibilità di rifiatare.
E sai che prima o poi finirà, ma non te ne importa una minchia. Perché un tiro sfoga la frustrazione, una cross rappresenta, una veronica accresce l'autostima, una parata regala certezze, un gol conferma che ne vale sempre la pena, e un liscio poi consola come il più falso e buono degli amici: anche tu, se solo avessi voluto, ce l'avresti fatta. Ma nella vita serve pure la fortuna..


Sarebbe proprio il massimo se riuscissi a chiarirvi quanto è appagante condividere qualsiasi giocata con i vostri stronzi amici, seduti lì accanto, pronti a fare gli allenatori, gli ultrà, i commentatori, i cabarettisti, gli ex in cerca di un'ultima possibilità; o semplicemente gli spettatori.
Sarebbe straordinario se potessi decifrarvi cosa mi passa nella testa quando vorrebbero spiegarmi che non ha alcun senso esaltarsi per "undici cristiani in mutande che corrono appresso a una palla". Ed io non so argomentare nulla, perché la mia unica argomentazione sono io e la prossima partita che vedrò. Anche da solo, senza per forza coinvolgere nessuno. Al massimo scrivendoci poi due righe su.
Come ho fatto in questo mese. Per raccontarvi di questo Europeo, di come è cambiato il calcio, e di come sono cambiato io. Forse in peggio, sicuramente meglio del calcio.


Ma le trasformazioni o si piangono, o si raccontano. E a me piace molto scrivere. L'avrete capito, anche se non vi ho parlato della finale di questi Europei, della vittoriosa Spagna, e della probabile fine di un'era.
Per ora è sicura solo la fine di questa rubrica, e tanto mi basta. Buona estate e buona crisi.



(Alla fine l'avete visto ridere e piangere: siete contenti ora, cari giornalisti e commentatori? La vostra vita sessuale è migliorata? Vi hanno alzato lo stipendio? Non pagate più l'Imu? Quando la finirete di rompere il cazzo con ste boiate?)