giovedì 22 settembre 2011

"UNA VOLTA UN MIO ALLENATORE DISSE CHE..": L'INTER DI MORATTI SPIEGATA AI CONTEMPORANEI

Ed eccomi, dopo più di 3 mesi, a rimpolpare le rosee pareti di questo blog rubato alle pagine sportive di "Burda". Ritorno qui a grande richiesta (se Bossi continua a fare comizi, anch'io posso continuare a dire cazzate), e lo faccio riprendendo a sorvolare il pianeta calcio con la mia mongolfiera sospinta dai gas dell'ovvio.
Così, senza remore di sorta, naturale come un liscio di Zauri, banale come uno stiramento per Pato, scontato come un gol di Moscardelli al Napoli in un turno infrasettimanale, ecco un post sugli allenatori dell'Inter morattiana, logicamente dedotto dall'ultima recente cacciata del buon Gian Piero Gasperini, colpevole solamente di essere arrivato al club nerazzurro nello stesso anno in cui il figlio stupido delle Raffinerie Saras (vale a dire Massimo Moratti) ha deciso di tornare ad essere in pieno lo stolto presidente di calcio che fino a qualche anno fa amava far ridere l'Italia, e l'Europa, con il suo modo surreale, comico e sempre molto originale di gestire un club che a cavallo tra il vecchio e il nuovo secolo era diventato davvero un mistero divino in cui si mischiavano a dovere i tratti della pietà e del ridicolo.

Però, nel trattare le guide tecniche distribuite nella sua storia di patron dell'Inter da Moratti, non userò il metro obiettivo ma abusato dei risultati avuti sul campo dai vari allenatori, bensì un criterio a me più congeniale, che porta a identificarli per ciò che hanno realmente rappresentato nella mia duplice visione di sportivo e spettatore comico. Evocherò quindi per ognuno un "ipse dixit" rimasto a spasso tra le pieghe di quello che è forse lo sport più bello del mondo: l'intervista pre/postpartita.

Ottavio Bianchi (febbraio - settembre '95):


"Uomo, zona, numeri tattici, tutto già visto. La diagonale si faceva già negli anni '60, ma non la chiamavano così. Di gabbie erano piene gli oratori e i cortili. Non si è inventato nulla, si è solo migliorato quello che c'era già. La cosa più importante è consentire alle individualità di esprimersi al massimo nel collettivo. Il resto sono stupidate da Bar Sport!"


La sapienza della normalità, gente di un'altra epoca. Monotono e bello. Voto 9.


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Luis Suàrez (settembre '95):


"Massimo Moratti è una grande persona, impegnata anche nel sociale."


Si, vai a dirlo alle famiglie degli operai morti nelle raffinerie di Sarroch. Ah no, ma Massimo è il figlio scemo, quello che pensa solo all'Inter..
Il buon vecchio Luisito però ricalca i tratti smielati del nonno che vede come un angelo anche il più dannato dei suoi nipoti. Teneramente fuori dalla realtà. Voto 7.
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Roy Hodgson (ottobre '95 - maggio '97 / maggio - giugno '99):


"Vorrei avere undici Pelè. Lo schema lo deciderebbero loro."

"Sono fiducioso, a Parma non ho mai perso! Anche perché non c'ho mai giocato."


Per lui ho un debole, lo confesso. La faccia di uno che si è appena scolato la boccetta di whisky riempita mezzora prima, e il grande merito d'esser riuscito a far girare i coglioni nientemeno che ad Javier Zanetti (vedi link), all'epoca non ancora capitano-totem con smanie di santità.
Il suo non prendersi troppo sul serio, e quell'impressione di trovarsi in panchina quasi per caso, lo rendono mito incontrastato. Voto 10.
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Luciano Castellini (maggio - giugno '97 / marzo - aprile '99):


Si vabbè, vi sfido a trovare un'esternazione, non dico degna di nota, ma quanto meno non scritta su tavole di pietra, di questo onestissimo tappabuchi della panchina (ha guidato l'Inter per 6 partite in due anni). Voto 6,5 di stima.
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Luigi Simoni (luglio '97 - novembre '98):


"Nel calcio di oggi segni un gol e sei un campione, prendi un palo e sei un coglione."


Nei suoi anni la squadra col giocatore più forte del mondo (Ronaldo) giocava il calcio più approssimativo, piatto e sonnolento del pianeta. Ma si porterà come espiazione universale, fino alla fine dei suoi giorni, il ricordo di quella che fu la più grossa e plateale rapina sportiva, forse seconda solo ai Mondiali del '34 vinti dall'Italia fascista nell'Italia fascista, ossia quello Juventus-Inter arbitrato dal signor Ceccarini con la stessa imparzialità con cui Himmler avrebbe arbitrato Germania-Polonia.
In quell'occasione riuscì nell'ardua impresa di non farsi arrestare, conservando una grande dignità. Voto 8.
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Mircea Lucescu (novembre '98 - marzo '99):


"L'Inter gioca meglio sul bagnato che sull'asciutto."


Impareggiabile incompreso. Lo si ricorda per il calcio spettacolo e i tanti gol, spesso degli avversari. In realtà molto sottovalutato, credo paghi più che altro quell'abbigliamento da suonatore di fisarmonica in metropolitana. 
Genio sfuggito alle limitate logiche spazio-temporali del calcio. Voto 8.
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Marcello Lippi (luglio '99 - ottobre 2000):


"Io, fossi il presidente, manderei via subito l'allenatore e poi prenderei i giocatori e li attaccherei tutti al muro e gli darei dei calci in culo a tutti."


La sua uscita a mezzo stampa più famosa, in casacca interista, dopo un 2-1 in casa della Reggina, dissipa da sola tutti i dubbi sul feeling con quest'uomo che unisce la proverbiale simpatia dei toscani con l'altrettanto famoso appeal di chi è stato amico di Moggi.
Umiltà sotto lo zero, se ha dei meriti in carriera non riguardano certo la storia con l'Inter. Voto 4,5.
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Marco Tardelli (ottobre 2000 - giugno 2001):


"Il calcio di oggi è un mondo fantastico, con un solo difetto: se ne parla troppo."

Per uno che è stato commentatore Rai, una frase simile suona come uno sputo davanti allo specchio. Resterà sempre famoso per il set perso in quel derby del maggio 2001.
Tanto rustico e genuino, quanto inutile. Voto 5,5.
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Hèctor Cùper (luglio 2001 - ottobre 2003):


"Yo estoy contigo."


Frase detta ad ogni suo giocatore prima dell'ingresso in campo, mentre con una mano gli batteva un colpo sul petto. Uomo di passione e caratura morale, un po' meno di idee e cinismo. Non a caso è quello che perde i finali e le finali, anche quando le guarda in tv.
Vibrante come un tango o un'amante da dimenticare prima possibile. Voto 7.
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Corrado Verdelli (ottobre 2003):


Chi???
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Alberto Zaccheroni (ottobre 2003 - giugno 2004):


"Ho avuto la fortuna di allenare solo una squadra di gran livello nella mia carriera da tecnico: il Milan. E devo dire questa Juventus si avvicina molto.."


Ed era la Juve di Poulsen, Grygera, Legrottaglie e Molinaro..
Ecco Zaccheroni è l'uomo che più si avvicina al mio ideale di paraculo. Muto, passa inosservato per avere una promozione, e poi lecca il culo all'ambiente che lo circonda come solo pochi Capezzone sono riusciti a fare nella storia. Miracolato. Voto 4.
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Roberto Mancini (luglio 2004 - giugno 2008):


"In questo momento non ho giocatori, e posso cambiare solo i centrali di difesa e gli attaccanti."




Questa, il buon Mancio, l'ha detta pochi giorni fa dopo un pareggio di quel suo Manchester City che costa più o meno quanto una manovra correttiva di Giulio Tremonti. Credo basti ciò a inquadrare un allenatore che è riuscito a vincere con l'Inter solo dopo che si decise di fargli fuori qualsiasi seria contendente.
Bravo, ma sopravvalutato e senza vergogna. Voto 6 meno.
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José Mourinho (luglio 2008 - giugno 2010):


"Perché nel 2009 il Chelsea? Perché nel 2010 l'Inter? Perché oggi il Real? Non so se è il potere dell'Unicef, o qualcos'altro.."


Disse lo "Special One" dopo la semifinale dello scorso aprile persa in casa dal Real col Barcellona. Ecco, questo è Mou: un concentrato di sagacia, ambizione, ironia e deleterio egocentrismo. Ha vinto tutto, ma ha anche perso un sacco di occasioni per stare zitto.
Sei il migliore se migliori innanzitutto te stesso. Le statue invece sono ferme, e prima o poi qualcuno le butta giù. Vittima e carnefice. Voto 9.
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Rafa Benitez (luglio - dicembre 2010):


"Quando sono arrivato il club mi aveva promesso tre acquisti per costruire una squadra ancora più forte. Invece non è arrivato nessuno. Sono un professionista serio e merito rispetto per il mio lavoro."


Che dire, l'uomo sbagliato nel posto sbagliato. Amato dai tifosi del Liverpool, nonostante due soli trofei vinti in tanti anni, arriva qui e pensa di trovare idee e gente seria e professionale.
Gran signore, ma un po' troppo lento a capire. Voto 5,5.
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Leonardo (dicembre 2010 - giugno 2011):


"L'Inter è una cosa così profonda che era impossibile dirle di no. Io sono un romantico.."


Si, il romantico amico dei petrolieri... Non so cosa faccia adesso a Parigi, ma in compenso ricordo molto bene come certi omini dello Schalke passeggiassero increduli tra le macerie della difesa nerazzurra.
Apparenza e poca sostanza. Voto 5.


(Ecco Moratti mentre pensa già al possibile sostituto di Ranieri)

sabato 4 giugno 2011

IL GIORNO IN CUI IL PASSATO TORNO' AD ESSERE PASSATO

"C'è qualche cosa di sbagliato nell'amore, c'è che quando finisce porta un grande dolore.."

Lo cantano i Marlene Kuntz. Parole che mi sono tornate in testa oggi allorché, per la prima volta nella mia vita, ho sentito dei foggiani accostare il nome di Zdenek Zeman a concetti oscuri come "tradimento" e "irriconoscenza". Anzi, più che concetti oscuri, vere e proprie accuse, pesanti come quei dubbi che neanche l'evidenza dei fatti riesce a lavare via. Macigni pieni di rabbia e sconforto, un impasto su cui purtroppo si reggono molte coscienze foggiane.
Un allenatore che lascia una squadra di calcio è uno degli avvenimenti più naturali del mondo. E a nessuno verrebbe mai in testa di chiedere motivazioni, implorare ripensamenti, decifrare sospiri e espressioni facciali: roba da tifosi. Folli adepti di una religione che, come tutte le manifestazioni di culto, ha anch'essa i suoi profeti, i suoi totem e le sue divinità.
Ci sono quelli, pochi, che celebrano indiscutibilmente la "maglia", emblema di quella tradizione che si autopreserva da sé, per il solo fatto di esistere, indipendentemente da chiunque le renda onore o disonore.
Ci sono altri invece, meno integralisti e purtroppo un po' più numerosi, che legano l'appartenenza alla propria squadra del cuore all'esistenza di un progetto almeno in prospettiva vincente, spesso attendendo da un campo di calcio quelle soddisfazioni che la quotidianità stenta a regalare.
E ci sono poi tutti gli altri, il resto dei tifosi insomma: più o meno attaccati; più o meno costanti; più o meno partigiani; accomunati da un solo grande tratto, quello di restare emotivamente ed idealmente legati ad alcuni dei personaggi entrati a far parte nella storia della loro squadra. Ai limiti dell'idolatria.

Ecco, l'idolatria: Zdenek Zeman a Foggia non è, e non sarà mai, un personaggio "normale". Merito o colpa di chi ha vissuto l'epoca d'oro della macchina da gol che regalava spettacolo sui campi verdi di tutta Italia.
La memoria non è un delitto. L'esaltazione di una realtà provinciale a laboratorio filosofico e pratico di un nuovo modo di fare calcio, con addirittura l'invenzione di un nome, "Zemanlandia", che servisse a identificare la residenza di un non-luogo; le soddisfazioni nella massime serie di una squadra ciclicamente destinata alla terza serie; la sorpresa, per il calcio dello spreco forzato dell'epoca, di un club povero che arriva a mettere paura con le sue risorse limitate; tutto ciò non è fantasia, è stato vissuto sulla pelle da molti. E seppure la retorica abbia esasperato col tempo certi elementi della storia, attribuendogli un valore mitico ai limiti del ridicolo, sarebbe altrettanto ingenuo non riconoscere ciò che è stato il calcio a Foggia negli anni di Zeman. In una sola parola: gioia.

Dopo di lui, che torna anche come spartiacque storico, le gioie per i tifosi rossoneri son state sempre meno, e sempre di più sono stati invece i rischi di vederlo chiuso una volta per tutte questo baraccone chiamato Us Foggia. D'altro canto anche Zeman ha collezionato più infortuni che applausi, e di lui s'è finito per parlarne più fuori che dentro il campo. Ma in tutto questo susseguirsi di annate più o meno deludenti, con la sorpresa negativa sempre pronta a far la sua parte (Avellino, 17 giugno 2007), per questa città il nome di Zeman è sempre rimasto lì, intonso, chiuso nella teca come le reliquie di un santo, e pronto ad essere tirato brutalmente in ballo ogni qualvolta si balenasse l'opportunità di sperare in una rinascita sportiva.

Poi, il 14 luglio 2010, a Foggia succede ciò che si riteneva impensabile: di nuovo il patron (che per forza economica ora è piuttosto un "garzon") Pasquale Casillo; di nuovo Peppino Pavone; di nuovo Zdenek Zeman. Di nuovo "Zemanlandia"? No. Forse un abbaglio, buono solo per tirar su qualche copia dei giornali; sicuramente una stagione positiva, ma niente di ché.
D'altronde, rimarcherebbe qualcuno, come si può rifare qualcosa che non è mai esistito?! Sarebbe come voler rifare lo stesso sogno fatto anni addietro. Gli innamorati dell'allenatore boemo non capiscono: ma come si può non preferire Zeman a qualsiasi altro allenatore sulla faccia della terra? Questione di estetica, di spirito, di virtù dell'uomo prima che del tecnico. A Foggia effettivamente c'è poco di cui gioire, e un personaggio di questo valore è meglio non farselo sfuggire. I risultati sono un dettaglio; ed anche se tutti vorrebbero vincere, all'uomo di Praga si perdona tutto.

La speranza di un futuro migliore colma anche gli appetiti più insaziabili, e per il Foggia Zeman è speranza e insieme garanzia di un futuro migliore. Si chiude gli occhi e si inizia a sognare. Ma qualcosa non va come tutti si aspettano, com'era logico che fosse per ricreare "Zemanlandia2", e non si fa in tempo a riaprire gli occhi che tutto pare un incubo. Inutile rifare la cronaca: il mister lascia il Foggia e i foggiani.
Una piazza intera ci rimane di stucco. Non capisce. E' durato tutto troppo poco, dev'esserci un errore. La realtà a volte si sbaglia, rimandate indietro la giornata, non può essere. Invece è così: Zeman ha deciso, molto semplicemente. Perché semplice è la vita delle persone.
Ma se alle persone si sostituiscono i miti, le divinità, gli esseri sovrannaturali, capire diventa più complicato. Quasi impossibile. Come chiedere a dio: perché mi hai abbandonato? La fede è la risposta a tutto. Devi accettare il destino. E invece no! C'è sempre un punto in cui l'idolatria arriva a far pugni con la realtà: bisogna richiamare l'attenzione, fare di più, offrire il vitello più grosso, sicuri che prima o poi la storia riprenderà il suo corso regolare. Follia. Pura, sincera e rispettabile, ma pur sempre follia.

Poi arriva il colpo duro, quello dell'ufficialità completa, la più difficile delle prese di coscienza, stazione ultima di ogni ossessione. E lì, dove in alcuni è diffusa solo una cocente delusione, mentre in altri vi è addirittura una paradossale negazione dei valori di colui che fino al giorno prima era innalzato al rango di "Messia", si fa largo per i più idolatri una vera e propria epifania della morte. C'è da elaborare un lutto, qualcuno è venuto a mancare, la sensazione è che tutto attorno stia scomparendo, nulla ha più senso.

E invece è successo l'esatto opposto. Una rinascita, aldilà della serie in cui si giocherà.
Zdenek Zeman non aveva mai lasciato Foggia. Il 1994 è sempre parso qui dietro l'angolo, pronto a riprendere il suo cammino alla prima occasione buona. Il passato aveva smesso di essere ricordo per essere invece misura e forma di ogni possibile futuro. La gloria di un'era idilliaca aveva trasformato in agiografia i limiti e le peculiarità di un uomo. Pulito, intelligente, preparato, ma pur sempre soltanto un uomo.


Quell'uomo che oggi, dopo 17 anni, ha davvero abbandonato Foggia. E l'ha liberata da un'ossessione.
Grazie Zdenek.

giovedì 19 maggio 2011

DOMINGOS PACIENCIA: I MERITI DI UN PERDENTE

Il male peggiore di quest'epoca è senz'ombra di dubbio la pressoché piena incapacità di saper riconoscere il merito dove esso realmente si colloca.
In altri termini la meritocrazia non è affare che ci riguardi. E non lo sarà mai finché continueremo, o per meglio dire continueranno, i cosiddetti mediatori o pseudotali, a valutare una persona in principio per il suo appeal comunicativo, e soltanto dopo per ciò che è stata oggettivamente capace di fare. A colui che sa fare, insomma, si preferisce innanzitutto colui che sa farsi raccontare. Perché altrimenti ci sarebbe bisogno di capire, di elaborare, di spiegare; e chi fa questo lavoro, diciamo chi fa il giornalista, pare ormai sempre meno avvezzo a queste pratiche.

Prendiamo ad esempio il calcio ("eh finalmente!", direte voi, che di certo non avete aperto questo blog per leggere inutili disquisizioni sociologiche, visto che quelle le trovate già sui vostri bellissimi link di feisbuck); la semplicità di questo sport, che è poi anche il presupposto primo della sua fama, permette infatti a chiunque, persino a gente dalle ridotte capacità intellettive come me ed Enrico Mentana, di comprendere e rielaborare concetti di cui altrimenti non sapremmo nemmeno l'esistenza.
Ecco allora che per spiegare il senso di questa assenza di meritocrazia mi torna subito utile la finale del fantasma di quella che era una volta la Coppa Uefa, tale Europa League, disputatasi appena ieri sera in quel di Dublino (in uno stadio senza le curve, sogno nel cassetto di molti degli stupratori che governano oggi il calcio), e che ha visto trionfare il Porto, vittorioso per 1a0 sullo Sporting Braga in un derby tutto lusitano addomesticato da un unico fondamentale leitmotiv: la noia.

Ma non m'interessa parlare della partita in sé, anche perché ci sarebbe davvero ben poco da dire. Vorrei concentrarmi piuttosto su quel che è stato il racconto di questa finale, anche se più che racconto si potrebbe parlare di monografia. Si, perché su internet, tv e carta stampata non si è parlato d'altro che di lui, André Villas Boas: allenatore del Porto; nuova stella della panchina; the Special Two, per meglio intenderci, essendo considerato l'erede naturale di José Mourinho.
Villas Boas da ieri è il più giovane allenatore a vincere un trofeo europeo, in questa sua prima stagione alla guida del Porto "rischia" di vincere tutte le competizioni (quattro) a cui ha partecipato, la sua squadra gioca bene, vanta nel suo curriculum la raccomandazione eccellente di buonanima sir Bobby Robson di cui è stato allievo, ed è stato collaboratore di Mourinho per tanti anni: ha quindi tutte le carte in regola per diventare un grande allenatore e un grande personaggio, e si merita appieno la fama che lo sta circondando.
Tutto troppo facile però. Scontato. Roba buona per il chiacchiericcio di tv e giornali appunto. Allora saltano agli occhi le incongruenze. E non per colpa di Villas Boas, sia chiaro, che pare pure un tipo simpatico, ma per quel maledetto e ignobile vizio di mettere in risalto solo chi poi fa notizia.

Così torno alla finale di ieri, alla vittoria meritata del Porto. E penso al Braga, che era davvero troppo scarso per contendere la coppa ai più famosi cugini e campioni nazionali.
Penso agli attaccanti schierati ieri; ad Albert Meyong, camerunense col fiuto del gol, ma con le narici evidentemente tappate; e ai due brasiliani Paulo César e Rodrigo Lima che insieme hanno segnato più o meno quanto ha segnato il colombiano Falcao, del Porto, nella semifinale d'andata contro il Villareal.
Penso al povero terzino sinistro Silvio, che a soli 23 anni ha già fatto più lisci di quanti ne abbia mai fatti Pancaro con la Lazio.
Penso al centrale peruviano Albert Rodriguez, difensore col vizio del gol. Del gol avversario però.
Penso al difensore Kakà, che non è parente del brasiliano del Real Madrid, e come difensore non è parente nemmeno di Porrini o Mirkovic.


E penso infine, soprattutto, al signor Domingos Paciencia, 42enne allenatore di questa cesta di brocchi senza gloria.
Di lui non ha parlato nessuno, se non per la curiosa fatalità per cui, ai tempi in cui giocava nel Porto, fu proprio un commento sulla sua posizione in campo a far scaturire l'idillio tra l'allora mister Bobby Robson e un giovane vicino di casa che divenne suo collaboratore, prima di intraprendere una propria carriera da allenatore.
Volete sapere chi era questo giovane vicino di casa rompicoglioni? Il suo nome è André Villas Boas. Proprio così, sempre lui: un incubo. L'incubo di un uomo baciato dalla sorte in ogni suo gesto.
Un contenitore di successi in cui tutti gli altri, esattamente com'è accaduto al nostro caro Domingos, diventano aneddoti, comparse; si dissolvono anonimi con le loro storie e i loro meriti.
Domingos Paciencia allora resta colui che ha perso, lo sfidante, uno dei tanti. Destinato al sottoscala del "c'ero quasi".


Ma non è sempre così. Non funziona solo come vuole la comunicazione. Almeno non qui. E allora parlerò dell'impresa di un uomo che ha portato una squadra di umili e modesti scalciatori a contendere ai ricchi, belli e famosi cugini di Oporto il secondo (su due) più importante trofeo europeo.
Certo il Braga ha perso, dando quasi un senso di impotenza contro un avversario enormemente più forte. Ma proprio qui scatta il grande merito di Domingos Paciencia: aver messo degli uomini davanti ai propri limiti.
Aver trascinato un gruppo di atleti fino alla massima aspirazione sportiva per loro concepita da madre natura.
Aver dimostrato che, se vuoi, puoi. Sempre però con un po' di fortuna. Perché un merito senza fortuna è un merito. Ma un merito con un po' di fortuna diventa un successo.


(L'espressione entusiasta di Domingos Paciencia alla notizia che gli avrei dedicato un post)

domenica 8 maggio 2011

I SEGRETI DEL MILAN NEL CAMPIONATO DELLA NOIA

Eccola, sento l'adrenalina che defluisce pian piano tra una vittoria scontata che viene e una sconfitta all'ultima spiaggia che va. Siamo agli sgoccioli della stagione, tiriamo le somme e cerchiamo di dare un senso un po' più generale  alle giornate, agli episodi e alle emozioni vissute, sparpagliate qua e là come le risse in una partita del Real Madrid.

Quando finisce il campionato in fin dei conti si è sempre un po' tristi.
Quando finisce un campionato però, sia chiaro, non quando finisce la nostra serie A. Parliamo di due cose diverse. Il nostro non è un campionato, è un circo triste. E quando finisce, perché ormai è pressoché tutto deciso anche se ufficialmente mancano ancora due giornate, io non posso far altro che rallegrarmi.
Questa è stata una stagione a dir poco terribile. C'è stato un gran numero di partite in cui davvero sarebbe stato più divertente tagliarsi le vene e fare una gara di velocità tra i rivoli di sangue. "Perché cazzo le hai viste?", mi chiederete voi allora. Ed io vi rispondo: se non le avessi guardate, come avrei potuto scriverlo sto post adesso, geni?!

Vediamo un po'. Ha vinto lo scudetto il Milan. "E sticazzi!?" mi sembra la risposta adatta alla domanda. Ma anche se non era una domanda, va bene lo stesso.
Ha vinto la squadra più forte, o se non altro sicuramente quella con più analfabeti, da Gattuso a Cassano, passando per Van Bommel (si beh conosco l'olandese, cazzo volete?!..); ha vinto la squadra che lo ha meritato, come si dice in questi casi quando non si ha nulla di più intelligente da dire o quando si è Massimo Mauro; ha vinto la squadra più continua e più solida, direbbe uno che vuole farsi figo con termini vacui che servono solo a riempire quei servizi di "Studio Sport" con cui incarto tanto bene il pesce.
Ha vinto la squadra con più giocatori, direi io. Si certo si tratta di giocatori validi, per carità, altrimenti in testa ci sarebbe stata anche la Juventus, che pure ne ha tanti di giocatori, tra cui però purtroppo per loro molte pippe. Resta il fatto che il giovane (per le misure di questo paese) allenatore del Milan, Massimiliano Allegri, ha avuto un giocatore ogni qualvolta rischiava di restare scoperto un mezzo ruolo. E così è obiettivamente più facile, come insegnava la storia proprio col Milan di Fabio Capello, che a inizio anni '90 poteva contare su due potenziali squadre di grandi campioni, i quali spesso neanche sapevano di giocare nella stessa squadra.


Dunque se c'è una dote che non si può non riconoscere a questo Milan, questa è proprio la completezza. Niente ruoli scoperti. Niente lacune. Alcuni esempi:


 - Mancava un diacono? Ecco Nicola Legrottaglie! Non credo abbia mai giocato col Milan, e se l'ha fatto lo sanno solo lui e dio. Davvero... Eppure sabato sera è stato uno dei primi a schizzare dalla panchina per festeggiare il tricolore. Credevo che in certe religioni contasse anche un minimo senso del pudore. Forse lui crede di aver contribuito pesantemente con le sue preghiere. Le stesse che facevano i tifosi del Milan sperando di non ritrovarselo mai in campo.


 - Serviva un turista per caso capitato nello stadio per prendersi gli immeritati demeriti di una sconfitta? Ecco Marco Amelia! Con l'aria di chi s'è fatto fregare i cerchioni dell'auto e resta in giro a cercarli, vaga per la stagione rossonera collezionando 7 presente e 12 gol subiti. Ah si, è vero: vi dovevo ricordare che Amelia è un portiere...


 - Necessitava Allegri di un terzino per una serata perché Zambrotta era ancora infortunato e Antonini il lunedì non può giocare essendo di turno al pub? Ecco Marek Jankulovski, 72 minuti contro il Napoli a San Siro e forse una scommessa con Allegri: se riesci a farmi giocare più di un'ora contro la seconda in classifica e vinciamo lo stesso lo scudetto, tu sei un mago! Qua la mano mister, scommessa vinta..


 - Occorreva al Milan un parrucchiere con l'hobby dei festeggiamenti alcolici? Ecco Massimo Oddo da Pescara, che si ritrova ogni tanto a giocare ancora qualche partita solo per scontare una vecchia condanna per un orrendo taglio di capelli; condanna che gli fu poi commutata in 300 minuti di servizi sociali da svolgere sulla fascia destra del Milan.


 - Serviva una controfigura di Abate per le scene più pericolose? Ecco il  giovanissimo Alexander Merkel!


 - E infine serviva un olandese di colore con le treccine (che poi però se l'è tagliate), perché il Milan non può vincere uno scudetto senza uno di colore con le treccine, anche se poi se l'è tagliate? Ecco Urby Emanuelson! Il vero segreto di questo scudetto del Milan. Anzi, più segreti di così si muore...


(Una foto di Barbara Berlusconi e Pato, per dimostrare che a noi del gossip non interessa nulla)

mercoledì 6 aprile 2011

UN POST SU BALOTELLI, CELEBRANDO RYAN GIGGS

Stasera, al 24' minuto di Chelsea-Manchester Utd, io ho pensato a Mario Balotelli.

Stasera allo stadio "Stanford Bridge", quand'erano circa le 21:09, è successo questo: il signor Ryan Joseph nato Wilson, ma oggi ufficialmente noto col cognome della madre (la signora Lynne Giggs), con 37 anni e mezzo nelle gambe, si è visto arrivare un lancio da trenta metri dall'altra parte del campo; allora ha fermato la palla dinanzi a sé facendole fare nello stesso tempo uno scatto in avanti che ha messo fuori causa il difensore avversario, costretto a inseguire non solo la palla ma anche lo stesso signor Giggs che era partito prima di lui perché già sapeva dove sarebbe andata la palla, ossia verso la linea di fondo campo; prima della quale il signor Giggs l'ha gentilmente accarezzata verso un suo compagno fermo a centro area, concedendogli quella gloria tutta particolare che si concede ai marcatori, spesso banali finalizzatori di bravure altrui.

Ecco, mentre realizzavo e rivedevo ciò che aveva fatto il signor Giggs, io pensavo a lui: Super Mario Balotelli, il bad-boy del calcio italiano, o come cazzo lo volete chiamare.

Pensavo a questo figlio di immigrati a cui il destino ha concesso più di quanto non verrà mai concesso a migliaia di altri ragazzi nati nelle sue stesse condizioni; e questa di certo non sarà una sua colpa, ma ricordarsi ogni tanto da dove si proviene può aiutare per capire quanta strada è stata fatta.
Pensavo a lui che ha il record di aver fatto l'esordio in serie C1 a soli 15 anni, 7 mesi e alcuni giorni.
Pensavo a lui che proprio tre anni fa, il 6 aprile 2008, a neanche diciotto anni segnava a Bergamo, con la maglia dell'Inter, il suo primo gol in serie A.
Pensavo insomma, mentre la tv passava l'azione di quel vecchio tizio gallese che quasi da solo aveva costruito il gol del vantaggio dei red devils a Londra, a questo ragazzo italo-ghanese dalle potenzialità (tecniche ed economiche) precoci ed enormi.

Riflettevo, quindi arrivai a una semplice conclusione: non esisterà gol, assist, gesto tecnico, record, prima pagina, modella strafiga o contratto milionario che potrà mai concedere a Mario Balotelli un millesimo della grandezza di quel tizio gallese.

Quel tizio che a 18 anni si impegnava ad eliminare con forza dalla sua vita l'unica cosa che non si può dribblare, ossia il proprio passato. E richiudeva così nel cassetto del dimenticatoio ciò che più aveva odiato, la violenza del padre insieme al suo cognome e alla sua nazionalità inglese, per dedicarsi alla causa del Galles e cercare di entrare nella storia del calcio con un altro cognome più degno, quello della madre.
Quel tizio che ha solcato la fascia sinistra del Manchester United e deliziato gli occhi di tutti gli amanti del calcio per più di 860 volte, senza mai farsi ricordare per altro che non siano giocate da maestro di questo sport.
Quel tizio che ha vinto quasi ogni trofeo esistente, e sempre da protagonista.
Quel tizio che sir Alex Ferguson manda in campo con la stessa fiducia con cui un cieco manda avanti il proprio cane-guida.
Quel tizio che in 64 presenze con la nazionale del Galles è stato espulso solo una volta. E probabilmente quella volta lo ha pure chiesto lui all'arbitro perché in realtà doveva andare a cagare, ma la sua eleganza non gli permetteva di dirlo espressamente.
Quel tizio nominato dai tifosi come il terzo giocatore più forte della storia del club di Manchester.
Quel tizio che ha fatto un gol così:



Nel 1990 Ryan Giggs e Mario Balotelli hanno in comune solo i geni del calcio: uno è da poco un professionista, l'altro solo un piccolo individuo dal futuro incerto.
Dopo ventun'anni i punti in comune aumentano. Anche Balotelli ora è professionista, come Giggs. I due vivono nello stesso ambiente, nella stessa città e nello stesso campionato.
Eppure nel 2011 Ryan Giggs e Mario Balotelli continuano ad avere davvero in comune solo i geni del calcio: perché uno è da poco una leggenda, l'altro solo un giovane professionista dal futuro incerto.

(Qui Balotelli chiede simpaticamente allo stadio Meazza di stare in silenzio perché vuole fare uno scherzo a Moratti)

lunedì 21 marzo 2011

I MISSILI CHE PIACCIONO A NOI

In tempo di guerra (ma è sempre tempo di guerra, anche quando non appare) si sente un gran parlare di missili, testate, caccia, bombe, razzi, e di tante altre armi più o meno potenti sganciate nella comunicazione quotidiana con la stessa facilità con cui si parlerebbe dell'uscita di un film o di un libro.
Quel che conta non è informare sulle sorti di un paese in cui politicanti, dai fini doppi e tripli, si prendono il lusso di fare gli alti statisti, trattando sulla pelle dei cittadini; bensì ciò che vale è narrare i modi della guerra, suscitare pathos sulla scorta delle immagini delle scie lasciate dagli aerei, e sui suoni dei colpi sparati. Una narrazione che fa leva sull'impatto emotivo scatenato dai termini forti della battaglia in quegli ascoltatori che pensano ancora che la guerra sia un gioco coi soldatini di plastica, oppure un foglio di notizie buone per i futuri libri di storia.

E allora per protesta, contro lo sdoganamento della terminologia belligerante, io banalizzo tutto e porto questi vocaboli nel più sempliciotto ambiente calcistico. Traslando tutto l'arsenale che mi capiterà sotto mano, per una dissertazione sui bolidi scagliati verso le porte e i loro poveri estremi difensori in questi ultimi giorni.

Iniziamo da un colpo a salve. O, per meglio dire, un colpo che non ha mietuto  vittime, suscitando solo tanta paura in chi se l'è visto arrivare, sempre se l'ha visto arrivare. Parlo del sinistro al volo con cui il viola Juan Manuel Vargas ha tramortito la traversa della porta della Roma, indifesa da Doni, che ha chiesto al Brasile di rispondere a questo attacco del Perù, scambiando la prodezza di Vargas per un intervento militare.
Coordinazione perfetta per un siluro micidiale. Minuto 1.15 del video:


Se Vargas ha spostato lo stadio "Artemio Franchi" di qualche centimetro, noi invece ci spostiamo di qualche ora indietro, di qualche chilometro ad ovest, e verso qualche livello superiore dell'universo calcio, narrando la meraviglia con cui Dani Alves ha aperto le marcature sabato sera nella sfida tra Barcellona e Getafe.
Succede tutto al 17' minuto di gara, quando un non meglio identificato omino della squadra ospite respinge fuori dall'area di rigore un pallone figlio di mille carambole. La sfera non fa neanche in tempo a sfiorare l'elegante erbetta del "Camp Nou" che subito le si avventa contro il destro incazzato ed eccitato del terzino del Barca, Dani Alves appunto, il quale scaglia un proiettile ad una velocità tale che addirittura a fine partita sarà lo stesso pallone a presentare una denuncia nei confronti del brasiliano con l'accusa di maltrattamenti.
Il collo esterno del piede, autore del gesto violento, fa sì che la palla invada la rete con una traiettoria a uscire che sembra quasi dire al portiere del Getafe: "Ehi pippa non mi prenderai mai!...Eppure a distanza riesco a sentire lo stesso la puzza delle tue ascelle".
Ecco la perla:




E finiamo con un salto indietro di qualche giorno, saltando anche continente. Siamo nel quartiere di Almagro a Buenos Aires, Argentina, Sud America. Nello stadio "Pedro Bidegain" ci gioca il San Lorenzo, che sabato scorso affrontava in casa il sempre glorioso Boca Juniors.
Partita bloccata sullo 0-0, fino al minuto 65', l'istante in cui Aureliano Torres, paraguaiano e centrocampista di fascia sinistra del San Lorenzo, avanzando palla al piede un po' annoiato per la scarsa vivacità dell'azione, decide così dal nulla di far partire una saetta dai trenta metri.
Il tiro si mostra subito abbastanza incoerente e, mentre sembra destinato ad accarezzare l'idea della porta come un qualsiasi tentativo velleitario da parte di un disperato, finisce con l'infilare la palla alla sinistra del portiere del Boca Juniors, sorpreso e quasi offeso da tanta indisponenza.
Eccola la rete di Aureliano Torres, un bel razzo a lunga gittata:




Uno dei tanti, uno di quelli che piacciono a noi.




(Un uomo chiamato a mettersi in barriera su una punizione di Roberto Carlos, noto killer)

mercoledì 16 marzo 2011

ERIC RE PER UNA NOTTE - Aggiornamento

E per una notte voglio essere tanto retorico anch'io: in bocca al lupo Abidal. Mucha suerte!

giovedì 3 marzo 2011

ERIC, RE PER UNA NOTTE

E' l'11 luglio 2006.
E' da poco passata la mezzanotte, e nell'aria e nelle strade di Roma c'è solo e soltanto euforia. Da due giorni va avanti così, ed è plausibile quando succede di vincere una Coppa del Mondo. Ma stasera la bolgia è amplificata fino al delirio: i campioni sono tornati nella loro capitale; per mostrare alla folla il trofeo, per sentire e toccare l'esaltazione che suscita, per essere osannati come a nessun altro uomo potrebbe mai accadere per una vittoria di sport.
E' sempre l'11 luglio.
A poco più di mille km di distanza dalla città di papa Benedetto XVI e papa Totti I, negli stessi momenti in cui a Roma si prendeva a smaltire la sbornia di goduria destinata a durare parecchie settimane, nella città francese di Lione un ragazzo festeggiava amareggiato il suo 27esimo compleanno. Il suo nome è Eric Abidale con la sua nazionale aveva appena perso ai rigori la finale mondiale contro l'Italia di Marcello Lippi.

Eric Abidal ha una storia particolare: originario della Martinica, non cresce in uno dei tanti vivai eccellenti di Francia, ma muove i primi passi nel Lyon-La Duchère, squadra amatoriale dei sobborghi di Lione. Di qui passa al Monaco; due anni dopo va al Lille di Claude Puel, attuale tecnico del Lione, che nel 2004 cede Abidal allo stesso club del presidente Aulas, permettendogli così un ritorno nella sua città natale.
Nel 2007 il definitivo salto di qualità: per 15mln di euro Abidal passa al Barcellona allora guidato da Frank RijkardSpesso titolare, tra prestazioni ottime e altre meno buone il difensore francese si ritaglia uno spazio importante nel club blaugrana, con cui vince praticamente tutto a livello nazionale e internazionale.


Ma in mezzo a tutto ciò tornava a più riprese la solita questione: per qualcuno Abidal è sopravvalutato, e non meriterebbe certi palcoscenici.
Il 17 giugno 2008 a Zurigo la Francia gioca la terza ed ultima partita della fase a gironi del Campionato Europeo che si sta tenendo in Austria e Svizzera. Di fronte ai transalpini ancora l'Italia, ora di Donadoni. Partita decisiva, chi vince va avanti nella coppa.
Al minuto 24' Luca Toni sorprende la difesa della squadra di Domenech e si presenta solo davanti al portiere Coupet. Potrebbe segnare o forse no, nel dubbio Abidal lo stende. Rigore per l'Italia, ed espulsione del centrale difensivo dei galletti, che chiude il suo europeo solo un'ora prima dei compagni.
Ancora una delusione, ancora dubbi del popolo calcistico sulla qualità, espresse solo a tratti, dal difensore francese.
Ma i successi con il Barcellona stellare di Pep Guardiola mettono sempre più in buona luce anche Abidal. Il Barca subisce pochissimi gol e, tra i giganti catalani Piqué e Puyol, Eric si ritaglia uno spazio importante, uno di quelli su cui il mister può sempre contare, anche come centrale oltre che come terzino sinistro. Ed è soprattutto in questa stagione, all'età non più giovanissima di 32 anni, che Abidal sta mostrando appieno tutte le sue doti nel reparto arretrato.


Così quando si acquisisce sicurezza e si diventa pienamente consapevoli dei propri mezzi, si manifestano serate speciali come quella del 5 gennaio scorso, data del ritorno degli ottavi di finale di Coppa del Re.
A Bilbao il Barcellona deve assolutamente segnare, per rimediare allo 0-0 dell'andata al Camp Nou. Ma la Catedral del San Mamès è un ambiente ostico per chiunque, e l'Athletic si dimostra sempre una squadra temibile.
La partita è tiratissima. Nel secondo tempo c'è un corner per i padroni di casa, in area c'è il solito mucchio, e ad un tratto dagli spalti parte una monetina che colpisce Abidal vicino all'occhio. Il gesto lascia un segno sul volto del giocatore che, passato lo spavento, non dice una parola e continua a giocare.
E fa bene. Perché al 75' raccoglie una delle tante perle regalate da Leo Messi ai compagni e piazza un piattone che spacca la partita a favore dei catalani. E' un gol importante, ma soprattutto è il suo primo gol con la divisa blaugrana.


Abidal si ritaglia così la sua serata di grazia, cornice di un quadro che raccoglie le tante prestazioni importanti che sta collezionando quest'anno. E di mugolii sul suo conto pian piano se ne sentono sempre meno.
Merito del lavoro, della serietà di chi fa il suo dovere in silenzio, ma senza tirarsi mai indietro. Di chi per tutta la vita resta lontano dalle luci della ribalta, regalandosi solo per una volta una grande giornata da protagonista.
Proprio come succede a tante persone normali. Proprio com'è successo ad Eric Abidal.


(In questa foto Abidal mentre tenta, inutilmente, di far crescere il compagno Bojan Krkic)

martedì 15 febbraio 2011

LA SERA IN CUI INIZIO' LA STORIA MINORE

Rimini, 12 aprile 2000. Sono passate da un po' le 9 di sera, e stupidi ragazzini in gita di terza media sono rinchiusi nelle loro stanze d'albergo a guardare una puntata, pare eccezionale, di quel fagocitatore di turbamenti adolescenziali che è stato "Dawsons's kreek". Vago per i corridoi e vedo il vuoto. Qualsiasi forma di vociare è stata completamente annullata dall'estasi prodotta dal telefilm nei suoi attentissimi telespettatori. Scendo piano le scale come una principessa attesa in sala; ma sono solo uno stronzo che si sta godendo la più beata delle solitudini, attraversando lo spazio indecifrabile del silenzio. E così, calmo e rilassato, arrivo nella hall.

Messa lì in disparte, in un angolo, davanti a pochi indistinti osservatori, una tv trasmette una gara di coppa Italia (il trofeo che poi qualcuno ha deciso di rinominare TimCup, pur sapendo che tutti avrebbero comunque continuato a chiamarla coppa Italia): è Lazio-Inter, finale di andata.
La Lazio è quella di Sven-Goran Eriksson, quella zeppa di campioni regalati a suon di debiti da Cragnotti, che vincerà parecchio in quel biennio di fine anni '90. L'Inter è invece la triste Inter di Marcello Lippi, quella che ha strappato Christian Vieri proprio alla Lazio per circa 90mld di lire, e che alla fine di quell'anno finirà quarta solo per quelle due splendide punizioni con cui il divino Roby Baggio decise lo spareggio di Verona col Parma.

Non ricordo assolutamente nulla di ciò che vidi in quella partita prima e dopo il 58' minuto. Per me esiste solo quel frangente, che oscilla tra i sessanta e gli ottanta secondi. Quel frangente in cui, per la prima volta nella mia vita, ho sofferto per le lacrime di un uomo ricco e famoso. Era Luìs Nazàrio de Lima. Era Ronaldo. Era "il Fenomeno".
Rientrava dopo alcuni mesi, da un duro infortunio. Al primo scatto tentò subito una finta, un gesto atletico che per lui era naturale come lo è per me pisciare, e finì subito per terra. Il tendine rotuleo non aveva retto lo sforzo, si era rotto. Le immagini della rotula fuoriuscita dal ginocchio fecero subito il breve giro delle mie sinapsi. Quello che, circa un anno e mezzo prima, sembrava una forza sovrannaturale, al 58' minuto di Lazio-Inter divenne un ragazzo rotto nel fisico e nell'animo.
Non lo compatii come ragazzo infortunato, ma in quanto campione fermato in modo crudele da un destino invidioso. Ero triste perché capivo che, dopo quei drammatici secondi, Ronaldo non sarebbe stato più Ronaldo.

Prima di quel momento era stato tutto ciò che il calcio può essere. E anche di più. L'impensabile che si affaccia alle porte del quotidiano. La forza vestita con l'abito della classe sopraffina. L'utile e il dilettevole. La paura che un giocatore potesse esserci, ma ancor di più quella che potesse non esserci. In sintesi la gioia per questo sport quando a praticarlo sono quelli che non si possono fermare e marcare in alcun modo. Quelli che bisogna solo ammirare.
Gli ultimi gol con l'Inter; i tanti belli e importanti col Real Madrid; il Mondiale in Corea e Giappone vinto da protagonista: nessun trofeo, nessuna prodezza, niente ha restituito ciò che è stato spezzato in quella calda serata di aprile. 

Quelli che contiamo oggi sono dati, numeri, dettagli buoni per la storia minore. Ma la storia minore riguarda i grandi uomini, non gli uomini fuori dal comune. Per loro, per i fuoriclasse, non valgono le categorie di spazio e tempo. Per loro vale solo quella sensazione di eterna superiorità lasciata in un attimo negli occhi di chi li ha visti giocare.
E l'idea che se dio fosse stato un giocatore, avrebbe giocato così.

(In questa foto Ronaldo ha in testa quello che ho sempre sperato potesse essere un fotomontaggio)

lunedì 7 febbraio 2011

VADO, LO SEGNO E TORNO (sennò il mister mi cazzia)

Certe volte la vita è monotona quasi quanto una partita di serie A. Si vorrebbe fare di più, avere di più, dare di più, magari senza dover citare per forza la canzone di Tozzi-Morandi-Ruggeri. E invece si è costretti a restare sui soliti pezzi e sulle solite battute, la solita musica, i soliti cibi, le solite figurine e i soliti gol.
Fino a che qualcuno non si decide a dire "basta": il troppo è troppo, soprattutto il troppo noioso. Bisogna andar via, partire. Allora si preparano i bagagli e ci si va a mettere in discussione in altre zone della terra.

La gente di cui parlo io in verità non è che si sposti poi così tanto dal luogo d'origine, diciamo sessanta metri al massimo. Ma la misura in questione è a dir poco obbligata e fondamentale: i sessanta metri sono infatti la distanza che più o meno tutti i difensori (tranne quelli delle squadre di Zeman, a cui bastano solo una decina di metri..) devono percorrere per arrivare alle soglie della porta avversaria e provare a fare ciò che non gli è dovuto e che quindi, come ogni azione riuscita e non dovuta, rischia di trasformare un istante in un'immagine indimenticabile: segnare un golEntrare finalmente nel tabellino dei marcatori, lì dove regnano quelli che la storia del calcio tramanderà come gli uomini davvero decisivi. Perché le verba delle belle prestazioni volant, ma gli scripta delle statistiche manent.

Arriva così il momento in cui il difensore, stanco dell'anonimato del suo "lavoro d'esperienza" (ossia menare l'attaccante sperando che l'arbitro sia in pausa caffè, o meglio ancora che sia Morganti), vìola quelle legge non scritta che lo vorrebbe soltanto muro di cinta dell'area di rigore, se ne frega di tutto e di tutti, e si avvia verso l'area avversaria per vedere se è davvero così bella come dicono i suoi compagni attaccanti.
Arrivato lì, e passata l'emozione iniziale, si mischia a testa bassa nella folla e fa perdere le tracce di sé approfittando del fatto di non essere nella lista degli invitati. Il portiere e i difensori padroni dell'area, incuriositi dalle facce nuove, si rivolgono allora agli attaccanti avversari per chiedergli: "Ma quel tizio chi è? E sopratutto chi l'ha invitato?". Gli attaccanti però fanno spallucce: "Non lo sappiamo, è uno che ci ha seguito con la macchina. Lo conosciamo di vista, nulla più.."
La sottovalutazione è una delle chiavi della gloria. E il nostro eroe per caso è lì in area di rigore con uno stimolo in più degli altri: provare una sensazione che raramente gli potrà capitare ancora. La tenacia lo accompagna; le marcature a uomo, la zona e le uscite aeree del portiere sono rituali di sola apparenza che non lo spaventano per nulla. Il destino è quasi scritto, manca solo la firma. "Vaffanculo tutti: adesso segno io!.."
Chissà, forse nessun difensore ha mai pensato a tutte queste cose prima di realizzare un gol. O magari si. Potremmo chiederlo agli eroi improvvisati di quest'ultima domenica, tre difensori centrali: Bostjan Cesar del Chievo Verona; Daniele Portanova del Bologna; Simone Loria della Roma.

Il primo, sloveno quasi trentenne alla prima stagione in Italia e già a quota tre gol in campionato, è stato autore della zampata che ha permesso al Chievo di pareggiare il gol della Lazio, firmato da Hernanes, in una partita che la sintesi di SkySport ha descritto con ben quattro azioni. Una partita da "vietato ai minori" insomma.
Il romano Portanova invece, pilastro arretrato del Bologna, col suo tap-in a porta sguarnita (atto apparentemente banale, ma che ha regalato, e continua a regalare ai programmi sul calcio tanto materiale comico..) è stato addirittura decisivo, avendo siglato il gol che ha permesso di battere quel Catania che dimostra domenica dopo domenica quanto fossero grossolane le colpe dell'ex allenatore Marco Giampaolo, esonerato perché pareggiava troppo. Infatti ora il Catania perde soltanto
Quindi c'è la meteora romanista Loria, che forse è un po' meno eroe per caso, visto la discreta quantità di gol (40!) segnati in carriera, ed è un po' di più un difensore della Roma per caso. Il livello di competitività della squadra non lo dovrebbe infatti veder titolare neanche nell'eventualità di un attacco congiunto di cacarella a Mexes e Juàn, che restano più affidabili anche con le mutande sporche. Eppure domenica sera contro l'Inter, ritornato improvvisamente prima in panchina e poi in campo, Simone ha lasciato il suo segno tra i marcatori, pur senza servire a un risultato positivo dei giallorossi.

Ma è il gesto che conta: strappare una pagina a un copione già scritto.

(Qui Eto'o mentre spiega allo sloveno Cesar i trucchi di un grande attaccante)