giovedì 19 maggio 2011

DOMINGOS PACIENCIA: I MERITI DI UN PERDENTE

Il male peggiore di quest'epoca è senz'ombra di dubbio la pressoché piena incapacità di saper riconoscere il merito dove esso realmente si colloca.
In altri termini la meritocrazia non è affare che ci riguardi. E non lo sarà mai finché continueremo, o per meglio dire continueranno, i cosiddetti mediatori o pseudotali, a valutare una persona in principio per il suo appeal comunicativo, e soltanto dopo per ciò che è stata oggettivamente capace di fare. A colui che sa fare, insomma, si preferisce innanzitutto colui che sa farsi raccontare. Perché altrimenti ci sarebbe bisogno di capire, di elaborare, di spiegare; e chi fa questo lavoro, diciamo chi fa il giornalista, pare ormai sempre meno avvezzo a queste pratiche.

Prendiamo ad esempio il calcio ("eh finalmente!", direte voi, che di certo non avete aperto questo blog per leggere inutili disquisizioni sociologiche, visto che quelle le trovate già sui vostri bellissimi link di feisbuck); la semplicità di questo sport, che è poi anche il presupposto primo della sua fama, permette infatti a chiunque, persino a gente dalle ridotte capacità intellettive come me ed Enrico Mentana, di comprendere e rielaborare concetti di cui altrimenti non sapremmo nemmeno l'esistenza.
Ecco allora che per spiegare il senso di questa assenza di meritocrazia mi torna subito utile la finale del fantasma di quella che era una volta la Coppa Uefa, tale Europa League, disputatasi appena ieri sera in quel di Dublino (in uno stadio senza le curve, sogno nel cassetto di molti degli stupratori che governano oggi il calcio), e che ha visto trionfare il Porto, vittorioso per 1a0 sullo Sporting Braga in un derby tutto lusitano addomesticato da un unico fondamentale leitmotiv: la noia.

Ma non m'interessa parlare della partita in sé, anche perché ci sarebbe davvero ben poco da dire. Vorrei concentrarmi piuttosto su quel che è stato il racconto di questa finale, anche se più che racconto si potrebbe parlare di monografia. Si, perché su internet, tv e carta stampata non si è parlato d'altro che di lui, André Villas Boas: allenatore del Porto; nuova stella della panchina; the Special Two, per meglio intenderci, essendo considerato l'erede naturale di José Mourinho.
Villas Boas da ieri è il più giovane allenatore a vincere un trofeo europeo, in questa sua prima stagione alla guida del Porto "rischia" di vincere tutte le competizioni (quattro) a cui ha partecipato, la sua squadra gioca bene, vanta nel suo curriculum la raccomandazione eccellente di buonanima sir Bobby Robson di cui è stato allievo, ed è stato collaboratore di Mourinho per tanti anni: ha quindi tutte le carte in regola per diventare un grande allenatore e un grande personaggio, e si merita appieno la fama che lo sta circondando.
Tutto troppo facile però. Scontato. Roba buona per il chiacchiericcio di tv e giornali appunto. Allora saltano agli occhi le incongruenze. E non per colpa di Villas Boas, sia chiaro, che pare pure un tipo simpatico, ma per quel maledetto e ignobile vizio di mettere in risalto solo chi poi fa notizia.

Così torno alla finale di ieri, alla vittoria meritata del Porto. E penso al Braga, che era davvero troppo scarso per contendere la coppa ai più famosi cugini e campioni nazionali.
Penso agli attaccanti schierati ieri; ad Albert Meyong, camerunense col fiuto del gol, ma con le narici evidentemente tappate; e ai due brasiliani Paulo César e Rodrigo Lima che insieme hanno segnato più o meno quanto ha segnato il colombiano Falcao, del Porto, nella semifinale d'andata contro il Villareal.
Penso al povero terzino sinistro Silvio, che a soli 23 anni ha già fatto più lisci di quanti ne abbia mai fatti Pancaro con la Lazio.
Penso al centrale peruviano Albert Rodriguez, difensore col vizio del gol. Del gol avversario però.
Penso al difensore Kakà, che non è parente del brasiliano del Real Madrid, e come difensore non è parente nemmeno di Porrini o Mirkovic.


E penso infine, soprattutto, al signor Domingos Paciencia, 42enne allenatore di questa cesta di brocchi senza gloria.
Di lui non ha parlato nessuno, se non per la curiosa fatalità per cui, ai tempi in cui giocava nel Porto, fu proprio un commento sulla sua posizione in campo a far scaturire l'idillio tra l'allora mister Bobby Robson e un giovane vicino di casa che divenne suo collaboratore, prima di intraprendere una propria carriera da allenatore.
Volete sapere chi era questo giovane vicino di casa rompicoglioni? Il suo nome è André Villas Boas. Proprio così, sempre lui: un incubo. L'incubo di un uomo baciato dalla sorte in ogni suo gesto.
Un contenitore di successi in cui tutti gli altri, esattamente com'è accaduto al nostro caro Domingos, diventano aneddoti, comparse; si dissolvono anonimi con le loro storie e i loro meriti.
Domingos Paciencia allora resta colui che ha perso, lo sfidante, uno dei tanti. Destinato al sottoscala del "c'ero quasi".


Ma non è sempre così. Non funziona solo come vuole la comunicazione. Almeno non qui. E allora parlerò dell'impresa di un uomo che ha portato una squadra di umili e modesti scalciatori a contendere ai ricchi, belli e famosi cugini di Oporto il secondo (su due) più importante trofeo europeo.
Certo il Braga ha perso, dando quasi un senso di impotenza contro un avversario enormemente più forte. Ma proprio qui scatta il grande merito di Domingos Paciencia: aver messo degli uomini davanti ai propri limiti.
Aver trascinato un gruppo di atleti fino alla massima aspirazione sportiva per loro concepita da madre natura.
Aver dimostrato che, se vuoi, puoi. Sempre però con un po' di fortuna. Perché un merito senza fortuna è un merito. Ma un merito con un po' di fortuna diventa un successo.


(L'espressione entusiasta di Domingos Paciencia alla notizia che gli avrei dedicato un post)

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