finale, Francia-Croazia 4-2
Stadio Luzhniki (Mosca), 15 luglio
Luka Modric, in silenzio, mentre Pogba ruba meritatamente la scena, mentre Mbappé comincia a ritirare alla cassa la gloria del predestinato, mentre Deschamps si prende una rivincita, mentre la presidente croata abbraccia tutti, mentre i suoi compagni di squadra a scacchi bianchi e rossi celebrano giustamente il risultato stupefacente di un torneo che stava per diventare storico.
Luka, un ragazzo delle forme minute ed esili che pare dover affondare da un momento all'altro, ma nella realtà trascinatore dominante, tosto nei muscoli e all'avanguardia negli spazi che sembrano ideati per i suoi piedi. Un uomo dal pallore di un bambino sperduto, e dalle gote scavate di un vecchio, con al braccio la fascia da capitano. Un taglio di capelli non più concepito dall'establishment pallonaro. Un alone di scarsa appariscenza che lo costringe spesso a tirar fuori colpi di visibile genio come cavie evase da un labirinto. Un numero 10, il numero 10 del Real Madrid, la squadra più titolata del pianeta. Il leader di una nazionale, la Croazia, che gioca bene ma che è evidentemente legata per necessità ai suoi movimenti, ai movimenti di Luka, che poi sono i movimenti della palla.
Il Pallone, appunto, quello d'oro del Mondiale, indiscutibilmente suo. Al termine dell'atto estremo tiene in mano il trofeo, brutto invece questo, per i fotografi, e all'interno dei ciuffi che accompagnano le tempie si scorgono due occhi che potresti dipingerci o scriverci un pezzo di storia del calcio, se solo ne fossi capace. Non di dipingere o di disegnare, ma di tuffarti, senza mortificanti paraventi mentali, io, noi, tutti, negli occhi di quel bambino che gioca immensamente bene a calcio.
Perché i bambini giocano a calcio, gli adulti lo vincono o lo perdono. Ma fra quattro anni Luka potrebbe essere troppo vecchio per essere adulto, e forse anch'io.
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