lunedì 30 giugno 2014

WarCup' 14: di CILE, MESSICO, GRECIA e ALGERIA

CILE, MESSICO, GRECIA E ALGERIA
ovvero
IL SENSUALE TANGO DEI PERDENTI

Cosa può esserci di sensuale in una sconfitta, fragorosa, beffarda, magari evitabile? Il ritmo, ad esempio. Quel cullarsi impavido e consueto di ogni prestazione, che nella foga iniziale sembra voler spaccare l'aria, e si protende come una gamba di donna sollevata a mostrare la perfezione dei muscoli che disegnano dall'interno la pelle liscia di un corpo perfetto, per poi ricadere a terra, voluta, giusta. Attesa.
Così è andata sempre. A partire dal Cile, che aveva subito rubato ai brasiliani anche il gusto dell'esultanza per il vantaggio precoce, pareggiando e facendoli sudare, di un gocciolio più freddo man mano che il cielo si tingeva di afa, e Fred e Jo si scambiavano il ruolo di portachiavi lì in attacco, dove s'era nascosto da un pezzo Neymar, e dove Hulk malediva il faccione tozzo e imperscrutabile di Gary Medel, uscito nei supplementari solo a causa di un quadricipite impacchettato di fasce più di un qualsiasi cibo conservato da mia mamma nel frigo. Poi i rigori, i balzi inutili di Bravo e quelli fortunati di Julio Cesar su una musica già scritta: vince il Brasile. Infatti l'ultimo tiro prima della lotteria era stato di Pinilla, cileno cagliaritano dai piedi romantici e dal cuore d'oro, che aveva spaccato la traversa per eccitare una storia dall'esito già scontato.

Come quello del Messico. Un primo tempo da spalla e braccia forti come il partner che trascina la compagna di ballo, un secondo tempo iniziato con labbra e sogni proibiti che si sfiorano alla rete di Giovani dos Santos, tante immagini di vecchi sorrisi poveri e felici rendono il viso una piaga di fatica e felicità ad ogni attacco perso dell'Olanda, fino a che la musica non inizia a calare, e gli orange stringono con più decisione e alzano il ritmo, perché il giro deve essere portato a casa, come è giusto. I passi li detta Robben, inarrivabile come Pina Bausch e fiero organizzatore di eventi per un Huntelaar altrimenti perso a contemplare la bellezza del suo ineseguibile spartito.

Fiera, anche la Grecia aveva alzato la testa. Con movimenti più repentini, volte e giravolte d'anca più istintive che decise e concentrate. Infatti il Costa Rica, che nella guerra dei perdenti ha contro di sé la colpa fatale di essersi assoggettato quelle simpatie popolar-mediatiche che trasformano certi Davide rompicoglioni e i relativi Golia in forze tutto sommato necessarie, era anche passato in vantaggio, con il solito Ruiz, abile a battere un portiere greco immobile come solo il pil del suo Paese glorioso.
Ma Sokratis, nome a sostituire un cognome ora difficile da ricomporre e un passato italiano con Genoa e Milan, ha il vizio di lasciare il campo più tardi degli altri, o di sentire in ritardo la musica per godersela meglio: fatto è che pareggia. Da lì partono i soliti picchi, come i duri affondi nella melodia di Mitroglou, che però non sa che la serata porta il nome di Keilor Navas, guardiano di porta costaricano con gli occhi iniettati di voglia di stringere qualcosa di santo tra le mani, come l'amore della carne.
Così, ai rigori, pure questa storia va da sé, senza il beneficio del dubbio del brutto rigore di pantofola Gekas.

Arriva quindi la sera di Algeri, dove le ombre si fanno compagnia e i destini si incrociano. Come quello di Germania e Algeria, a 32 anni da quella clamorosa inutile vittoria degli africani. Oggi il mare è meno mosso, quello di Porto Alegre; perché in campo la marea verde algerina si sparpaglia sul campo fastidiosa e inattaccabile come una distesa di alghe su un tappeto di foglie, dove tutto si mischia con tutto, le alghe con le foglie, il mare col fango, il verde col verde, le mani con le mani, i corpi con i corpi, i colpi con i colpi, uno dopo l'altro, quelli più classici svelati dall'improvvisato e fatalmente sicuro portiere congo-algerino-parigino Rais M'Bolhi, questi più divertenti e coraggiosi bloccati con ingordigia da una macchina da porta tedesca di nome Neuer.
Si finisce oltre, ai supplementari, come in ogni rapporto pieno di cose da dare e da dire; tipo le verità che ripristina il tacco sbagliato di Schurrle, la triste e inguardabile ovvietà di Ozil, e l'acuto finale, inutile, di Djabou. Buono solo per urlare: GOOL!
Abbiamo perso, ma ti ho sentito. Eri qui. Ballavamo. Abbiamo perso, ma ho il sangue che mi scorre dentro più forte di prima. E voglio ballare ancora.


L'ultimo non spenga la luce

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